Ernesto prese ad arrampicarsi per la pietraia che cadeva a picco dal blu del cielo. Sulle caviglie i graffi degli sterpi, in tasca ossa di coniglio, un sonaglio di tibie e vertebre per ogni passo incerto. Quando la pendenza si addolcì appena, si mise a correre sulle pietre, a saltare come fosse una rabbia scalza a portarlo. Ma già a metà costa il sole vinse la noia del pomeriggio, il sudore impastò la terra sulla canott iera bianca che si gonfiava e sgonfiava sotto il fiatone, il cuoio dei sandali gemette ferito. Allora Ernesto si voltò indietro, p oi guardò la cima, e gli parve che la collina fosse cresciuta per dispetto. A due metri da lui due sassi si toccavano quasi ad angolo retto, gentile invito al riposo, alla resa. Il corpo si slegò sulla poltrona, dietro di lui l’ombra si stiracchiava di sbieco, nera e rotta sui cocci.

Socchiudeva gli occhi ma non voleva dormire, Ernesto. A intervalli quasi regolari il suo piede destro si alzava e ricadeva al suolo, sollevando una piccola nube. Poi si scostava un po’, il busto si piegava lentamente in avanti, le dita raccoglievano la formica appena schiacciata. Ernesto ci soffiava sopra e poi se la metteva in bocca, lasciando che si sciogliesse come una caramella. Si rialzava sospirando.

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Le formiche, l’ombra ed Ernesto erano le sole cose a muoversi appena, sotto il sole delle tre. E lui sembrava non sentire l’afa. Quando non mangiava formiche se ne stava immobile, e avrebbe potuto tranquillamente sembrare morto, non fosse stato per le sue ossa magre e nervose, sensibili al più lieve fruscio. Santa Lucía, piccola laggiù tra i piedi, era solo una strada di terra in mezzo a due file di case. E adesso dormiva, come fosse notte, ma un sonno sudato e inquieto. La casa di Ernesto stava all’inizio del villaggio, se si veniva dall’altopiano. Proprio da quella parte apparve una macchia, senza destare sorpresa nel silenzio della strada vuota. Ernesto, la mano sugli occhi a mezz’asta, vide soltanto un punto grigio che avanzava, e pian piano gli vide crescere una testa lunga, quattro zampe tozze. Passò un tempo lungo, nel suono sempre più nitido di zoccoli, e il ragazzo non capì l’animale assetato ma testardo, quando lo vide ormai salire per la traccia appena accennata dai suoi piedi, e passargli davanti sfiancato e indifferente. Poco oltre la sedia di Ernesto, la mula si fermò.

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Era enorme e sembrava piuttosto vecchia e trascurata, a giudicare dalla pelle e dagli zoccoli consumati. Il ragazzo girò appena lo sguardo verso l’animale. Il primo pensiero a sfiorargli la mente fu che avrebbe potuto mangiarne la carne dura, anche tutta in una volta, cotta a puntino sulle pietre roventi. Poi pensò che aveva esagerato, ma che comunque la fame non gli mancava.

Non la conosceva, non aveva mai visto quella mula calpestare le sue strade. Di certo non apparteneva a nessuno che fosse di Santa Lucía, perché in paese di muli ce n’erano solo tre, e tutti e tre in viaggio. Una ragione in più per mangiarla, pensò. Non aveva voglia di alzarsi, Ernesto, non per quella stupida e vecchia somara che puzzava e che di certo s’era perduta. Rifletté sul fatto che i muli di solito non si perdono da soli, hanno sempre un padrone in groppa o di fianco e tirano dritti a forza di scudisciate. Ma questa il padrone non ce l’aveva, magari se l’era visto morire accanto in cima ai monti. Dalla sua seduta il ragazzo si godeva la vista della grossa bestia impegnata a masticare il nulla per non farsi seccare definitivamente la bocca. Una sottile coltre, giallastra di polvere, sporcava la sua pellaccia, e qualche mosca gli ronzava attorno alla testa come

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pregustando il momento in cui sarebbe divenuta carogna. Tra poco si sarebbero svegliati pure i cani, presentendone l’odore nel vento che ansimava.

Non portava bisacce, la vecchia mula, né ceste. La sua schiena dritta e nuda ricordava il profilo scarno dell’altipiano. Sopra non c’era niente, nessun carico da poter rubare. Ernesto se ne dispiacque, ma senza scomporsi. Avrebbe potuto continuare a succhiare formiche per tutto il pomeriggio, poi sarebbe venuta l’ora di cena. Fino a quel momento l’animale sembrava non essersi minimamente accorto della presenza del ragazzo. Poi ad un tratto, con estrema lentezza, la sua testa si voltò a guardare quel piccolo esemplare d’uomo. Lo vide seduto in maniera sgraziata su un incastro di sassi in pieno sole, con addosso un paio di pantaloni corti, sbottonati. E ciò che rimaneva di una canottiera bianca, tanto piccola da lasciare scoperta la ferita rotonda dell’ombelico. Ernesto si sentì osservato, forse anche a disagio. Non gli capitava molto spesso di essere guardato: la gente che conosceva non aveva motivo né voglia di alzare gli occhi da terra. Per curiosità ricambiò lo sguardo. Un po’ imbarazzato cercò gli occhi umidi della bestia, li fissò a lungo, frugandosi

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nella memoria per riuscire a spiegare la sensazione di averli già visti da qualche parte.

Ebbe un improvviso sussulto, recuperò una posizione appena più dignitosa quando credette di veder riaffiorare, nel caldo e nel ricordo, gli occhi lucidi di sua nonna. Si mise in piedi, le mani bene in vista, e mosse qualche passo cauto verso la mula. L’animale rimase immobile, lo sguardo fisso, senza segni di timore, come in paziente attesa. Ernesto si avvicinò lateralmente, fino a sfiorarne con cautela la pelle. Accarezzò con brevi gesti la schiena, vincendo il timore ad ogni tocco. Non incontrò resistenza, né cenni di fastidio. La mula muoveva soltanto la testa, e ogni tanto faceva un verso dolce, ad accompagnare quella mano estranea sulla superficie del suo corpo. La polvere secca si mischiava al sudore sulle mani del ragazzo, incollandole ancora di più al pelo ruvido. D’improvviso, come scosso, il grosso animale tornò a muoversi, il pettine delle dita perse contatto ed Ernesto rimase lì, perplesso, le mani vuote a mezz’aria. La mula saliva ancora, la coda un pendolo, una fune da afferrare. A distanza di calcio lui le andò dietro curioso, si lasciò insegnare il cammino più dolce per vincere la collina e le sue spine di roccia.

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Bastò poco per sentire i passi più leggeri, la salita sembrò discesa come se lì davanti la mula scavasse il sentiero a morsi lenti. All’ultima rampa, prima che si svelasse l’orizzonte, a Ernesto bruciarono nelle orecchie, assieme al vento che ormai scollinava, il respiro di fornace dell’animale e il battito inquieto del suo stesso cuore. Non era mai salito così in alto. Dai racconti poteva forse immaginare cosa lo aspettava, ma mai prima d’allora aveva avuto il coraggio di andare a vedere, di mettere i propri occhi dietro al nascondiglio della collina. Mentre la mula già caricava l’ultimo balzo, il ragazzo si cacciò una mano in tasca, scelse un guscio di lumaca come amuleto, lo portò al petto chiuso in un pugno. Non tremò quando dal primo piede sul ciglio gli occhi si sollevarono d’istinto al cielo, che per la prima volta videro aprirsi in lontananza, come se qualcuno avesse bucato un fondale di marionette. Stracci di nuvole correvano nervosi e bassi, strappati da cime lontane che si indovinavano soltanto. In lungo e in largo si riempiva gli occhi Ernesto, e non sarebbero bastati due sacchi per pochi secondi d’orizzonte. Fu una frustata, ma dolce, sulle natiche sudate nei calzoni, a chiudergli le ali. Fu la coda dell’animale che si era fermato, e incollato al suo fianco menava l’aria fitta di mosche. Il ragazzo si voltò, contrariato da quello che pareva

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Luca Leotta (al secolo Luca Antonio) è nato a Catania nel 1981. A 19 anni si è trasferito a Roma, dove si è laureato in Lingue e Letterature Straniere. Ha poi vissuto in Spagna, prima di decidere di tornare ad abitare in Italia. Oggi vive tra la Sicilia e Torino, è docente di lingua spagnola, e lavora come webmaster e redattore di contenuti per siti internet.

È tra i fondatori di Magma, mostra di cinema breve, festival internazionale di cortometraggi, del quale è stato direttore organizzativo per tre edizioni. È stato tra gli animatori di Mistero Buffo, centro culturale attivo ad Acireale dal 2002. È tra gli organizzatori di eralavò - festival delle storie di Acireale, che ha contribuito a fondare nel 2015. Appassionato di letteratura, soprattutto ispanoamericana, si definisce lettore di moderata voracità. Dal 2009 scrive saltuariamente su LuzAzuL – lotta armata in assenza d‘amore, un blog personale dedicato alla scrittura.

La Villaggio Maori Edizioni è una casa editrice piccola, onesta e indipendente: nata nel 2003 per contrastare il fenomeno dell'editoria a pagamento, pubblica romanzi, saggi filosofici (e non) ed ha una collana sulla coscienza femminile.

http://www.villaggiomaori.com/

la copertina della prima edizione di Agua Real