Culi (e cuori) di Pietra #2 – I gradini di San Pietro e Paolo

Mai dichiarare il proprio amore seduti sul sagrato di una chiesa. E se ci siete già cascati, rimediandone sofferenza al cuore e ai glutei, abbiate almeno l’accortezza di non commettere lo stesso errore una seconda volta. D’accordo, vi piace sfidare la sorte. Ma cercate di ricordare che una chiesa in cui ogni 27 di aprile si celebra, ininterrottamente da chissà quanti anni, una messa in suffragio di Benito Mussolini, non può che portarvi male.

Eppure da queste scale di pietra lavica si ha una visione d’insieme, dal basso, di Piazza Duomo. Una visione comoda nonostante la durezza della seduta. Ci si accorge che la piazza, in certe ore del tardo pomeriggio, nonostante sia divenuta in qualche modo periferia del vivere sociale di questa città, timidamente si accende di vita. A popolarla sono come sempre gli anziani e i loro sputi, ricordi e maledizioni tra i denti. E i matti, sulle panchine addossate alla parete della Cattedrale o a quella del Palazzo di Città. Sulle scale accanto a noi un gruppo di ragazzi, forse gli unici adolescenti, dall’accento si direbbero marocchini di origine, o forse tunisini.
In mezzo, sulla sempre discutibile superficie di pietra bianca e sul disegno concentrico di pietra nera che le restituisce un senso, stanno i veri padroni. I bambini.

Non li ho contati, ma in tutto saranno una quindicina, sparsi per tutta la piazza. Due un po’ più grandi si scambiano passaggi con un pallone e ogni tanto tirano una bordata verso un spazio indefinito che considerano la porta. Può essere il muro del giardinetto accanto alla chiesa, o lo spazio tra due colonne della facciata seicentesca, dove piazzare una punizione di giro all’incrocio può regalare una certa soddisfazione, tocca ammetterlo. Ai due fenomeni si uniscono sporadicamente due tappetti di cinque anni al massimo, che si affannano a correre dietro alla palla, dietro ai più grandi, dietro a se stessi e ogni tanto ruzzolano allegramente. Poi si rialzano, e vanno a prendere la loro dose di cioccolata dagli zii. Poi ci sono le bimbe che saltano giù dai gradini, le biciclette che impennano, un razzo di spugna che vola. La libertà delle prime parolacce.

In fondo a questo cortile aperto, si vede il ridicolo circuito per go-kart, ritagliato a sfregiare la piazza come eterno tributo alla vera compatrona di Acireale, Santa Automobile. Lei e Santo Cemento hanno da anni soppiantato i vecchi protettori cittadini, per numero di offerte votive, dedizione dei fedeli e santuari eretti a gloria del loro nome.

Nel loro recinto della felicità, passano le automobili più o meno accorte ai pedoni. Poco male, perché sul fondo della piazza non c’è più ragione di stare: i bar, quelli storici, quelli del salotto della città, hanno chiuso. Tutti.

L’unica luce fioca da quel lato viene dall’interno della banca. Poi, attraversata Via Cavour, viene la lunga serie di porte sprangate, vetrine tappate con scotch e carta di giornale. Le enormi botteghe sfitte. Se foste interessati, i prezzi a occhio e croce non scendono sotto i 5000 € al mese. I signori hanno così tanti soldi e immobili che possono fottersene anche delle regole basilari di un mercato in crisi. Per un gelato industriale resta solo il chiosco, almeno quello, nell’angolo estremo della piazza.

Mentre raccolgo i miei cocci, mi sento chiedere se sono mai salito sul campanile della Cattedrale. No, e nemmeno lei. E neppure abbiamo mai vagato, ubriachi e vocianti, nè ci siamo rincorsi per le strade vuote, nè ci siamo mai baciati negli angoli bui. Nè abbiamo mai avuto il coraggio di urlare che questa città era nostra. Come il futuro. Come il diritto all’amore.

Mi alzo e penso che su questi gradini non ci verrei a leggere. Sono fatti per guardare. Per farsi spezzare il cuore. O magari per suonare la chitarra.

Io la chitarra ce l’ho con me, si chiama Giada Battaglia. Ma non la so suonare. Quindi mi lascio accompagnare fino al confine della piazza da quegli occhi su cui volentieri avrei posato un bacio e tutti i sorrisi che ho dimenticato. E che invece devo riempire di addio. Poi salgo in sella a Lunanueva e mi lascio inghiottire dalle automobili del Corso.

Ultimo sussulto, tre punkabbestia con rispettivi cani al seguito e un cucciolo in mano, raro vederli da queste parti. Chiedono con accento slavo a un passante atterrito: ”Dove una piazza con un poco di festa?”. Hanno decisamente sbagliato città.

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