La maison du chat noir

Due isolati più su, vado a vivere da solo come Jerry Calà, ma con un senso del design decisamente più convenzionale, per non dire più noioso.
Qualcuno ha lasciato un gatto nero con mezza testa che non si muove dalla finestra. Mi ricorda ogni mattina la mia scelta.
Guarda piovere a giugno, guarda il sole delle undici affacciarsi tra i palazzi. Scende dal vetro quando non ci sono, gira cieco per le stanze vuote, fruga nel cestino dei rifiuti, lascia i peli sul divano all’ora della siesta. Quando la chiave gira nella toppa, torna in fretta a farsi sagoma, tira su la coda, solleva appena una zampa. E allora sono io che vago per le stanze. Abile montatore Ikea, stringo le viti della scarpiera per il cuore. Frugo nel frigo troppo grande per non essere vuoto, lascio capelli che lo straccio non raccoglie. Sono io che mi schiaccio su due sole dimensioni sotto il peso della notte e dei soffitti troppo alti. E ho un letto tanto ampio da ospitare me e tutti i miei fantasmi. Adesso ho deciso di restare, piantina di plastica senza radice, unico inquilino per sei coperti. Ora ho trovato la cornice, ora che la strada ha smesso di chiamare e non sono altro che una sedia e mio cugino dall’alto del suo albero attraversa le onde e gli orizzonti e mi fa notare da così lontano che non sono in viaggio, non più. Ora che per lavoro vendo la staticità di quattro pareti a chi arriva a questo porto. E non c’è impresa più titanica e insulsa che tentare di trasformare queste pareti bianche in una terra rossa su cui tracciare scarabocchi.

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