La petite marchande

Vendevi fiori di carta e saponi, e chi si avvicinava non sapeva se il profumo fosse dei fiori, dei saponi, o dei tuoi capelli che in certe mattine tingevano l’aria di lavanda o limone. Le tue dita in mezzo ai colori erano la primavera, trattavano la carta crespa come si manipola un impasto. E nel cesto sbocciava un bianco di gardenia, gerbere arancioni. La gonna, una sedia di legno. E sul tuo tavolo davanti alle scale, le saponette avevano sembianze di grosse caramelle, volentieri avrei dato un morso a una di quelle gemme su cui si adagiava una casa di lumaca, un’ape, un pesciolino.
Avevi scarpe leggere, piccole, ballerine rosse e nervose sulla pietra del fondo stradale. Cantavi. Specie quando passava il treno sotto di noi, tu cantavi piano. E io lo so perché ti venivo più vicino con gli occhi, fissavo i tuoi denti e il loro bagliore. Lo so perché ti stavo a guardare, seduto sul quarto gradino, col castello di fronte, tozzo e scuro alle tue spalle. E anch’io cantavo. Non ci rivolgevamo parola, noi ci parlavamo cantando. Per ogni verso un equivoco, un’allusione e una speranza.
Non riuscivo ad alzarmi e andar via. Mangiavo i tuoi fiori, il sapone, le canzoni e i treni. E il cielo senza pioggia e tutti i mattoni del castello. Il sughero del tappo e la lingua, la penna, la bottiglia. Scrivevo del ponte, di averlo finalmente trovato. Della mano che un giorno o l’altro ti avrei teso, pensando a quanto fosse un peccato sottrarre ai fiori la tua.

(@CartaCanta)

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