Per una scatola di legno che dicesse “Torneremo”

Eppure finiamo per guardare fisso da quella parte, a leggere sui giornali dei padroni di come i padroni sputano nel piatto in cui mangiano da sempre, e dove passano lasciano terra secca e merda che non concima. Ci specchiamo sulle vetrine delle banche, e negli occhi degli altri inginocchiati, perchè la fame può anche sollevare le braccia ma piega le gambe. Vediamo crollare salari che non percepiremo, pensioni a cui non siamo destinati, e crescere pareti di cemento che ingurgitano la pietra e se potessero succhierebbero via il mare, per case che solo in pochi avranno la sorte di abitare.
Siamo quelli che sono usciti perchè il maglione ci stava stretto, lo stesso maglione a rombi di quando avevamo cinque anni, perchè il paese non la smette di trattarci da bambini. Noi abbiamo scelto l’esodo forzato, senza terra promessa che non fosse la speranza di poter muovere le mani. E magari abbiamo trovato un lavoro che un tempo avremmo creduto diritto e oggi riconosciamo fortuna.
Siamo quelli che prendono freddo, e mangiano male, e mangiano diverso e mangiano pane amore e nostalgia. E non ci lamentiamo troppo dell’assenza, teniamo nascosto il dolore, ci limitiamo a dire che la pasta scuoce, la carne è dura. Ci avventuriamo per vicoli e strade cercando una pizza almeno dignitosa, valutiamo il costo e la stagionatura del formaggio. E quando il palato smette il suo orgoglio territoriale, mangiamo bene o quantomeno mangiamo di tutto. E aspettiamo vacanze e melanzane.
Lasciamo madri e padri appesi alla cornetta o a un paio di cuffie troppo buffe, lo sguardo da pesci dentro la webcamera e la domanda di sempre, ormai fuori contesto:”Ti servono soldi?”. E ci dispiace la distanza ma in fondo ne ridiamo, perchè sono poche ore di aereo e ce le possiamo permettere, non è il caso di farne un dramma, che ad altre anime in viaggio non tocca lo stesso privilegio.
Mastichiamo tutte le lingue, perchè in fin dei conti “è solo questione di orecchio”. E ci adattiamo, ci trapiantiamo, prendiamo la forma necessaria per evitare il rigetto. Preferiamo dichiarare che non mettiamo radici, ma comunque ci aggrappiamo a un posto che non riusciremo a chiamare casa. Le valigie non più di cartone si rompono lo stesso per il carico eccessivo, le maniglie si spezzano sotto le pance degli aerei. E ci fermiamo.
Eppure continuiamo a guardare fisso da quella parte, e ci importa di più di quella ridicola striscia di terra condita di isole che del quartiere in cui siamo finiti a vivere. Anche se non vogliamo ammetterlo, anche se il nostro paese ci ha maltrattati, scacciati con indifferenza, accesi di rabbia fino alla soluzione estrema dell’abbandono. Anche se abbiamo sentito e sentiamo il dovere di disprezzarne gli usi e costumi più beceri, l’ignoranza che lo farcisce, il crimine che lo fa marcire. Anche se col concetto di nazione ci puliamo il culo ed è pure carta di pessima qualità.
Perchè stiamo di qua ma veniamo da lí, la nostra identità un tramezzino freddo e un desiderio esasperato di lentezza. E tanto stiamo a guardare che ci fa male il fianco, ci lacrimano gli occhi. E la terra che odiamo per amore è il miraggio di un cane vecchio e triste che ci riconoscerà. Perchè nonostante tutto non ce ne siamo mai andati, sempre stiamo tornando.

2 Comments
  • Pico
    Posted at 18:43h, 08 Aprile

    È tutto vero, porca puttana… ma quanto mi piacerebbe riaverti qui, almeno per farti sentire che una pizza buona l’ho trovata anche da queste parti. Un abbraccio, amico mio!

  • lucha
    Posted at 22:04h, 08 Aprile

    sì, ma quanto la paghi? 🙂
    Amico Pico, prima o poi tornerò da quelle parti per abbracciarvi.