Wa’ad Allah

Wa’ad Allah¹
di Luca Antonio Leotta

Via Andreis, per Namira, è il collo di un imbuto dalle pareti grigie, dentro cui scivola ogni mattina, dal lunedì al venerdì, attorno alle 7.30. Non alza mai gli occhi da terra, per paura di guardare il fondo di quel tunnel a cielo aperto, di essere risucchiata dalla vertigine della prospettiva, di precipitare senza trovare sporgenze a cui afferrarsi sulle facciate speculari e orbe del Cottolengo. Conta le cartacce ad ogni passo, come fiori da non calpestare. Il marciapiede di lastroni non ha un gradino, non si stacca dalla carreggiata. Le automobili ne approfittano, parcheggiate quasi addosso al muro, concedono il passaggio a un solo pedone per volta. In uno spazio così stretto il gioco obbligato di Namira si fa più difficile. Con i piedi piccoli, le gambe secche da dodicenne, schiva e intanto continua a contare tutto ciò che somiglia a un insulto o a una minaccia, gli sputi, le cacche di cane, gli incarti di siringhe, i cocci, i brandelli di vestiti senza più identità, inzuppati dall’ultima pioggia. Chissà quanti altri pericoli immagina nascosti sotto i cartoni, e pensa che se davvero la via fosse un prato fiorito, forse avrebbe paura soltanto delle api. Se tutte le finestre, finalmente aperte, avessero fiori aggrappati ai davanzali, e dalle grate spuntassero rampicanti e dai muri rami d’alberi, sarebbe un bosco la strada per andare a scuola. Ma senza lupi. Tutto questo lo pensa in una lingua che è ancora un frullato di bengalese e italiano, e i pensieri le tengono calda la testa, sotto il cappuccio peloso del parka.
Sente un miagolio arrivare da un punto che non riesce a localizzare con lo sguardo. Ma metro dopo metro la voce si avvicina e svela il timbro di un lamento soffocato. L’uomo a terra non ha la forza di urlare. Ha appoggiato la schiena al radiatore di un’auto, si tiene stretto lo stomaco con entrambe le mani. Quando gli occhi si incrociano, l’istinto di Namira le fa portare una mano alla bocca spalancata in un grido, e insieme la pietrifica in quella maschera di terrore, a un metro da lui. “Amina! Amina!”, biascica l’uomo tra le smorfie di dolore, stira un braccio, tende le dita sporche di sangue a cercare un appiglio per non andarsene. Namira non lo conosce, o forse non riesce a ricordare, adesso ha solo paura, si sente esplodere di paura, non capisce, non sa cosa fare. Chiama aiuto ma nell’imbuto di Via Vittorio Andreis, tra le macchine parcheggiate male, non c’è nessuno che la ascolti. Le serrande del Cottolengo non si alzano, le finestre non si aprono. Eppure forse qualcuno, dietro le fessure, sta guardando ma non può intervenire, e con le mani appiccicate al vetro grida muto e si agita, prima di essere portato via per un corridoio bianco. Namira è sola. Come sempre. Sola davanti a un uomo che la chiama Amina e sembra pregare mentre annega nel suo sangue, il volto deformato dal dolore, la bava sulla barba nera. La vita sta scappando dagli occhi iniettati, la voce impasta altre parole che per Namira non hanno alcun senso. Con un
impeto definitivo l’uomo le afferra il polso. “Amina, waadallah! waadallah!”, sembra dire, o forse badullà, guardalà, o qualcosa che ha a che fare con Allah, ma lei non riesce a farci caso, perché sta urlando con tutto il fiato che ha in petto. E il suo grido è un garrito che lacera il cielo, mentre si divincola e scappa sotto il peso dei libri. Corre, corre come non ha mai fatto, vuole che l’aria fredda del mattino le cancelli dalla mente quell’uomo insanguinato. Piange. Gira l’angolo e il suo ritmo non rallenta per via S. Pietro in Vincoli. Al portone del Presidio Angeli Custodi un signore in tuta la vede e prova a fermarla. La trattiene per pochi secondi in cui non riesce a distinguere le parole di quella ragazzina che indica disperatamente la strada che si è lasciata alle spalle. Capisce solo “Morto! morto!”, mentre lei sfugge alla presa e continua la sua corsa. Namira non ha mai desiderato così tanto arrivare a scuola, nascondersi tra gli altri, sparire nel suo silenzio di ogni giorno.
Via Pesaro sembra non finire mai, la percorre più veloce che può, con lo zaino che le balla sulla schiena al passo del cuore. Al cancello verde della Giovanni Verga i vestiti e la fronte grondano, sente i brividi sotto la maglietta. È in ritardo di qualche minuto, la campana è suonata e i compagni sono già in classe. Il bidello le apre la porta e non ha il tempo di fermarla, l’età avanzata lo rallenta, la vede schizzare verso la II N e può solo urlarle dietro, nel suo dialetto, parole che rimbombano del suono acquoso di ogni corridoio scolastico.
Namira bussa, apre la porta. La classe intera si volta all’unisono e la guarda entrare, sudata, scarmigliata. Lo sguardo basso di sempre. Nessuno le chiede niente, nemmeno la professoressa, che interrompe la lezione di francese giusto il tempo che serve a Namira per andare al suo posto. Alle domande dell’insegnante tutti, tranne lei, alzano la mano e rispondono contemporaneamente, parlandosi l’uno sull’altro. Il suo turno non arriva mai, non c’è mai abbastanza spazio perché lei possa parlare. E allora si limita a contare. Conta le matite sul banco accanto, con gli occhi grandi conta tutte le scarpe bianche in classe, i fiori rosa sul suo zaino. Conta per non pensare, e per trattenere le lacrime. Passano cinque minuti e uno stormo di sirene attraversa il quartiere. Non sa dire quanto siano lontane, ma una la sente avvicinarsi sempre di più. Quando la macchina entra nel cortile della scuola, i ragazzi sono già tutti alla finestra a guardare lo spettacolo. Decine di piccole teste da ogni aula animano la facciata, non servono le urla delle professoresse a tenerle lontane dal davanzale. Namira rimane seduta. Trema. D’improvviso e con violenza spinge indietro la sedia, fugge nel corridoio, corre ancora piangendo verso l’uscita, grida “Non sono stata io, non sono stata io!”. Nel cortile, due Carabinieri stanno scortando una ragazza verso la macchina. La riconosce a fatica, è Amina El Kabir di I M, l’ha vista qualche volta al corso di italiano. Namira batte i pugni contro il bagagliaio della volante, non sa nemmeno perché. Grida “Uadallà! Vadallà!”. I Carabinieri la credono matta, ma hanno altro a cui pensare. Mettono in moto, accendono la sirena e partono sgommando via dal cortile della scuola. Qualche giorno dopo, il bidello sfoglia La Stampa sul suo tavolo all’ingresso. Un trafiletto di cronaca locale parla di Anis El Kabir, un marocchino accoltellato in Via Andreis. Pregiudicato, padre di una bambina di undici anni. Gli inquirenti sembrano voler archiviare in fretta il caso, una lite fra spacciatori. Il vecchio salta senza esitazione le pagine di economia, gli interessa di più il calcio. Non si accorge nemmeno della foto a mezza pagina in cui un uomo sorridente stringe la mano dell’Assessore ai Lavori Pubblici: “Alla Vadalà & Figli l’appalto per la riqualificazione delle ex Officine Grandi Motori”.

¹ Esattamente un anno fa, nel maggio 2018, il racconto ha vinto la prima edizione del concorso letterario NeroAurora,  il quale, almeno fino a oggi, non ha conosciuto purtroppo una seconda edizione.

Cose accadute nel frattempo a Torino Nord:

Il destino della ragazzina che ha ispirato questo racconto è stato molto più complicato e doloroso che nella finzione.

Un pezzo dello storico mercato del Balôn, quello occupato dai commercianti di fortuna e dalle loro incredibili cianfrusaglie, è sotto minaccia di sgombero.

Gli anarchici vengono perseguitati nel quartiere dalle forze dell’ordine e gli abitanti vengono sgomberati dallo stabile dello storico Asilo Occupato.

È cronaca di questi giorni l’ennesima notizia della penetrazione degli affari della ‘ndrangheta nel nord Italia, la sua stretta collaborazione con le istituzioni, specie nel settore degli appalti pubblici. 

Dentro l’assurda architettura del Pala Fuksas, piazzata come un fungo deforme in mezzo a Porta Palazzo e occupata finora da pochi orribili negozi, apre i battenti il Mercato Centrale, un megaspaccio di cibarie di vera o presunta qualità, ma comunque riservate a poche tasche. Folla, seratine, luci, vetrate limpide, riqualificazione, signorotte benvestite che non avevano forse mai attraversato la piazza prima d’ora. E la periferia e la sfortuna dei suoi abitanti si spostano ancora un po’ più in là, più lontano dagli occhi e dal cuore. 

 

 

1 Comment
  • Mauro Traverso
    Posted at 15:48h, 15 Maggio

    Bello